I
Belle creature, a voi chiediamo figli
perché in quel fiore la bellezza duri:
quando saran gualciti i vostri gigli,
ne fioriranno ancora eredi puri.
Tu no, non curi. Al tuo sguardo di brace
nutri la fiamma di propria sostanza,
oscuri ogni chiarezza, togli pace,
fai carestia là dov’era abbondanza.
La tua bellezza fulgida, l'orgoglio
che primavera annuncia, e porta gaia,
fiorisce e muore in un solo germoglio,
paga il suo dolce pegno a te, usuraia.
Sii generosa al mondo, o ridi forte:
bevi alla stessa coppa vita e morte.
II
Quaranta
inverni al tuo bell’incarnato
in guerra
di trincea daranno assedio;
sarà il tuo
manto, fiero ed invidiato,
lacera
veste senza più rimedio.
Ti
chiederanno dov’è lo splendore,
dove il
tesoro dei giorni migliori:
togli lo
sguardo, spento d’ogni ardore,
non far che
la vergogna ti divori.
Sii prodiga
di te, rendi la pura
bellezza
del sembiante ad un erede:
sarà il tuo
pegno, pagherà l’usura.
Questa
salvezza un figlio ti concede.
Rinasci in
lui, sconfiggi il tuo declino:
scalda il
tuo sangue al sangue d’un bambino.
III
Guarda lo
specchio: al volto ch’è riflesso
di’ che a
un secondo volto doni il vanto.
Se la tua
grazia non rinnovi adesso,
dài frode
al mondo, ad una madre il pianto.
Donna non è
sì bella che il suo seno
fiero
disdegni il seme dell’amato,
né uomo che
l’orgoglio senza freno
d’amor di
sé, d’un figlio abbia privato.
Specchio a
tua madre, tu di sua bellezza
il vago
aprile nel tuo viso porta.
Sia dolce,
ai vetri spessi di vecchiezza,
l’età
dell’oro, fra le rughe scorta.
Ma se
vivrai senza lasciar memoria,
morirà
solitaria la tua gloria.
IV
Bellezza
hai liberale, poiché spende
tutta per
sé l’eredità gentile.
Retaggio di
natura dà e riprende,
pròdigo al
generoso e meno al vile.
Avara e
bella, fa’ come conviene,
rendi quel
patrimonio all’indigente:
l’usura è
vana, se di tanto bene
la somma
immensa non ti è sufficiente.
Se del tuo
bene a te fai evizione,
sarai come
un sensale disonesto:
quando a
natura dovrai dar ragione,
come potrai
lasciare un buon regesto?
Beltà
infruttuosa ha esito infelice:
invèstila,
e sarà tua curatrice.
V
L’ore
cortesi che squisite danno
le forme al
tuo bel viso, onde ogni sguardo
è avvinto,
quel potere empio s’avranno:
fare
meschino quel ch’era gagliardo.
Il tempo
senza posa estate infonde
al tristo
inverno, ch’entro lei s’inuna:
gelide
linfe stringono le fronde,
beltà
innevata è persa in plaga bruna.
Non
rimanesse estate distillata,
liquida
essenza in carceri di vetro,
beltà dal
proprio effetto rovinata
senza rimedio
avrebbe il tempo tetro.
fior
distillato, se l’inverno avanza
perde il
sembiante, e non dolce sostanza.
VI
Prima che
inverno dall’artiglio scabro
ghermisca
estate, l’avrai distillata
in dolce
fiala, che nel suo cinabro
serbi
quella bellezza inalterata.
Legittima è
del tuo bene l’usura,
patto che
rende gioia a chi ha firmato.
Spendi te
stessa, non aver paura
se
l’interesse vien decuplicato.
Dieci volte
sarai più sorridente,
creata in
dieci identiche figure:
la morte
non saprà sottrarti niente,
se vivi
nelle immagini future.
Tu troppo
bella, splendida egoista,
per cedere
alla morte la conquista.
VII
Vedi a
levante, che la bella aurora
sorge dal
fuoco, quando l’occhio basso
di tanta
maestà gode, e l’onora
servendo
del suo sguardo il sacro passo.
E ascende
il colle ripido dei cieli
come al
meriggio d’una età più piena:
gli occhi
mortali adorano, fedeli,
avvinti al
cerchio aureo di sua lena.
Quando dal
sommo muoverà spossata,
debole
vecchia in bilico sul giorno,
l’occhio
devoto l’avrà abbandonata
al suo
cammino, per guardarsi intorno.
Al tuo
meriggio, pure, segue il limbo:
presto è
l’oblio per chi non lascia un bimbo.
VIII
Musica mia,
che musica t’è amara?
Dolce nel
dolce ha pace, gioia in gioia:
forse che
non t’allieta cosa cara?
forse che
ti compiaci alla tua noia?
Se i
levigati suoni d’armonia
uniti
nell’accordo son molesti,
lamentan
dolci come per te sia
cantato a
solo il coro che dovresti.
Vedi come
ogni corda all’altra dice
il senso
d’una vibrazione eguale:
come una
coppia, del figlio felice,
canta con
voce unita il madrigale.
Molteplice
canzone, muta e una,
dice del
solitario la sfortuna.
IX
Forse
temendo di bagnare i cigli
d’un
vedovo, tu sola ti consumi?
Se morte
t’avrà colta senza figli
piangerà il
mondo, orbato dei tuoi lumi.
E vivrà il
mondo in vedovanza amara,
se partirai
senza lasciare un’orma:
chi perde
moglie serba per sé cara,
negli occhi
dei bambini, la sua forma.
Il bene che
un incauto ha prodigato
si muta
luogo, e sempre dà conforto;
beltà
sprecata la divora il fato,
chi l’ha e
non l’usa, ne commette aborto.
Amor non fa
sentire la sua voce
a chi
compie di sé il delitto atroce.
X
Vergogna
nega che tu senta amore,
amica così
improvvida a te stessa;
da mille
amata, la mia dèa non cessa
nutrire ai
pretendenti il suo livore.
Temperie
tua possiede odio rapace
che contro
te non perita tramare:
rovinerà il
prezioso lacunare,
la reggia
onde dovresti avere pace.
Muta
pensiero, sì che muti anch’io;
a che
albergare un sentimento ostile?
Come nel
volto, in cuore sii gentile,
àbbiti
cura, per l’amor di dio.
Fàtti per
l’amor mio doppia e diversa:
che o l’una
o l’altra dèa non mi sia persa.
XI
Svelta come
declini, tu rinasci
nei figli,
a ristorare quel che langue;
resterà tuo,
se gioventù ti lasci,
l’avallo
che concedi al nuovo sangue.
Qui trovi
senno, qui prosperità:
altrove, un
folle gelo di vecchiaia.
Chi come te
si nega al tempo, fa
che in
pochi inverni il mondo già scompaia.
Lascia chi
nasce a un fato che non dura
anonimarsi
d’una morte grama;
più chiede
a chi più dà madre natura,
che a
frutto di sua dote ti richiama.
Matrice
naturale, a te la cura
di generosa
prole imperitura.
XII
Conto i
rintocchi che mi dicon l’ora,
notte
funesta cui il giorno s’avventa;
e della
viola bruna, che si sfiora,
il riccio
già inargenta.
L’immenso
ramo d’ogni chioma manca,
onde le
greggi furon confortate:
cinge il
covone il verde dell’estate,
ispida bara
bianca.
Penso alla
tua bellezza, che in ambasce
va
camminando per la strada oscura,
dolce
prezioso bene che non dura,
morto come
altri nasce.
Del tempo
non puoi vincere la lama,
se un
figlio non lo sfida, quando chiama.
XIII
Se tu
restassi tua! ma ti possiedi
soltanto
per il lasso di una vita.
Contro la
fine appronta i tuoi rimedi,
affida ad
altri la forma squisita.
Né mai
decada il patto che ti presta
questa
bellezza, sì che dopo morta
ritorni a
possedere quel che resta
di te, per
quella prole che ti porta.
Tanta
dimora chi vorrebbe persa,
che per
durare chiede un buon governo
contro il
vento d’inverno che riversa
dentro
lande di rabbia un gelo eterno?
Pròdigo
scialo, amore, niente più.
Avesti
madre: sii madre anche tu.
XIV
Non è degli
astri il fato che indovino,
benché
d’astronomia serbi nozione.
Non dico il
buono e manco il rio destino,
non peste o
fame o scognita stagione.
Né so ridir
la sorte di un minuto,
se fulmine
sia, vento o fortunale.
All’uomo
incerto non so dare aiuto,
il cielo
non mi è libro congeniale.
Leggo dagli
occhi tuoi ogni mia scienza:
le stelle
fisse che mi fan parola
di
veritiera e bella discendenza,
se tu
vivrai con me, né starai sola.
Se tu non
vuoi, sarà il destino nero –
con te si
muore tutto il bello e il vero.
XV
Se penso il
divenire fenomenico,
le perfezioni
effimere di cose
dentro
l’immenso macchinario scenico
cui le
stelle nascoste fanno chiose;
o vedendo
la vita vegetale
che un solo
cielo in noi vezzeggia e frena,
vanto di
gioventù che già disvale
cedendo al
sommo la sua prima lena,
dico che impermanenza
t’arricchisce
nell’inversa
ragione dell’età,
mentre il
tempo predone s’incrudisce
per menare
il tuo giorno a nerità.
Far guerra
amando contro il tempo, ardisco:
quel che
lui prende, ti restituisco.
XVI
Perché più
strenua lotta non ingaggi
col tempo,
quel tiranno sanguinario?
Fan d’uopo
per sconfiggerlo equipaggi
più degni
del mio sterile rimario.
Oggi tu
vivi il colmo dei tuoi giorni:
mille
giardini vergini ed incolti
la tua
virtù potrebbe fare adorni
di fiori
vivi, né dipinti volti:
linee di
vita a vita dan vigore,
ché il
tempo – e la mia penna d’apprendista –
non rendono
bellezza né valore
degno di
perpetuare la tua vista.
Concederti
ti rende eterna, vedi?,
per quella
dolce arte che possiedi.
XVII
Chi crederà
domani a queste rime,
elogio del
tuo pregio troppo pieno?
Si fa
sepolcro il verso, quando opprime
la vita
vera, e ne rivela il meno.
Scrivessi
la bellezza del tuo sguardo,
di fresche
cifre le facessi dono,
“il poeta”,
direbbero, “è bugiardo.
Sette cieli
in un viso: troppo buono”.
Esche allo
scherno, mie carte canute!,
vegliardi
tutti lingua e niente al sodo,
fole di
bardi e non lodi dovute,
zoppìe
virtuose di un antico epòdo!
Salvo che
un figlio veda il giorno in cui
vivrai due
volte: nei miei versi e in lui.
XVIII
“Giorno
d’estate” ti dovrò chiamare?
Tu sei più
bella, e meglio temperata:
il
fiordimaggio un vento fa tremare,
e muore
estate in troppo breve data.
L’occhio
del cielo avvampa tanto ardente
che infine
adombra un fulgido incarnato,
la sua
bellezza effimera è sovente
preda a
natura erràtica, o al fato.
Eterna
estate, tu non hai declino,
né della
tua bellezza perdi il vanto;
non mena a
morte oscura il tuo cammino,
se vivi
avanti al tempo in questo canto.
finché
l’uomo respiri, finché veda,
viva il mio
verso – e vita ti conceda.
Grinfie di
tigre rodi, tempo audace,
rendi alla
terra in pasto la creatura,
prendi le
zanne orrende della fiera,
ardi nel
proprio sangue la fenice.
Pena o
conforto da’ come ti piace,
fa’ quel
che credi, tempo corridore,
al mondo,
alle sue grazie periture,
ma ti
proibisco il crimine più atroce:
al viso del
mio amore serba luce,
risparmia
lo scalpello guastatore,
alla rovina
lascialo scampare,
che a
futura bellezza sia matrice.
O infuria,
tempo! e come che imperversi,
l’amore
vivrà eterno nei miei versi.
XX
Viso di
donna ornato da natura
hai tu,
sire–signora che mi regna.
Cortese
cuor di dama, che disdegna
di quella
la mutevole impostura.
Sguardo più
terso e vero, nel suo cenno
infonde
chiarità la dove posa:
sembiante
d’uomo, forte d’ogni cosa,
rapisce
l’occhio all’uno, all’altra il senno.
Se per
natura donna sei creata,
l’artefice,
dell’arte sua invaghita,
mise il
soverchio onde mi sei rapita,
fallace
aggiunta che mi viene ingrata.
Poiché
governi delle donne il foro,
a me
l’amore: l’usufrutto a loro.
XXI
Per me non
canta la solenne musa
che
scioglie il verso per virtù d’un quadro
e il
paradiso invoca al dir leggiadro,
che di
bellezza fa tenzone astrusa,
prodiga di
metafore assai fiere
di soli e
lune e gemme, terra e mare,
e boccioli
d’aprile, e cose rare
chiuse del
cielo nelle immense sfere.
L’amore
schietto parla più contento:
credimi
dunque, ch’è altrettanto bello
d’ogni
altro amore adorno dell’orpello
di lumi d’oro
infissi al firmamento.
L’imbonitore
vada discorrendo:
non vanto,
io, la merce che non vendo.
XXII
Non crederò
alle rughe nel mio specchio
finché la
gioventù ti sia consorte,
finché tu
non palesi il fregio vecchio
che a me
pure sarà preludio a morte.
Quel nitore
che tutta ti colora
è il pavese
sontuoso del mio cuore
che nel tuo
petto, e il tuo nel mio, dimora:
come, per
anni, ti sarei maggiore?
Perciò sii
cauta, amore, del tuo bene
e io del
tuo, che porto in gelosia
nel mio:
come la buona balia tiene
sicuro il
bimbo dalla malattia.
Morto il
mio cuore, il tuo farà lo stesso:
donato a
me, non ti sarà rimesso.
XXIII
Come un
mediocre attore sulla scena
cincischia
la battuta per paura,
come l’uomo
iracondo nella piena
dei
sentimenti trova sua sciagura,
così –
temendo il vero – ho profanato
la
cerimonia dell’amor leale:
amore
tempestoso e smemorato
annichilisce
in tanto maestrale.
Lascia per
me parlare questo foglio,
araldo
silenzioso che si strugge,
che implora
amore e ne riceve orgoglio,
più che non
possa un fiato che mi sfugge.
Leggere
d’un amore muto il segno,
udir con
gli occhi, è amare con ingegno.
XXIV
L’occhio si
finge artista, e t’ha ritratta
in belle
forme, alla tela del cuore;
il corpo fa
cornice, e rende esatta
l’ottima
prospettiva del pittore.
Tu che al
pittore riconosci il destro,
mirando la
tua immagine al profondo
del mio
pensiero,
atelier
dell’estro,
che per le
luci tue s’affaccia al mondo,
vedi il
sapiente gioco degli sguardi:
il mio, che
ti ritrae, il tuo che infonde
luce al mio
cuore, che il sole s’attardi
a rimirare
il volto che nasconde.
Occhi
sapienti, maestri nel colore,
non sanno
tuttavia ritrarti il cuore.
XXV
Lascia che
i favoriti dalle stelle
vantino
onori e titoli d’orgoglio
mentre io,
cui la sorte vien ribelle,
colgo le
gioie schive che più voglio.
Il favore
dei grandi – un chiaro fiore,
vanità di
vanessa nella sera,
gloria che
in un levar di ciglio muore,
memento
di se
stessa, tomba altèra.
Il gran
guerriero, insigne vincitore
di mille
scontri, per la prima resa
vien
defalcato dall’albo d’onore,
vanificata
la fatica spesa.
Beato chi
adorato adora, dove
il nome
iscritto resta, e non si muove.
XXVI
Sire
d’amore mio, poiché d’un degno
servaggio
il tuo valore, ecco, mi investe,
un
messaggio ti reco, che sia teste
del mio
dovere, e non prova d’ingegno.
Dovere
immane, cui l’ingegno crudo
appare
inane a ritrovar la rima,
se nel
pensiero tu non l’abbia prima
preso a
balia e nutrito, tutto nudo;
e la
qualsiasi stella che mi muove
mi usi il
bene d’un occhio donatore,
e che per
farmi segno al tuo favore
mi
rimpannucci amore in vesti nuove.
Allora ti
amerò d’amore in posa –
prima,
storno la testa timorosa.
XXVII
Torno a
giacere – il giorno mi ha spossato.
Riposano le
membra, ma il pensiero
dimentica
le vie che ho camminato
e inizia il
proprio viaggio, più leggero.
La mente
inquieta lascia il suo giaciglio:
peregrinante
amore a te la reca;
si leva
insonne, non vuol chiuder ciglio,
si leva
nella tenebra più cieca.
E suscita
dal niente una chimera,
un’ombra
cara: ed ecco il tuo sembiante
far bella
questa vecchia notte nera,
donarle un
fuoco vivo di diamante.
Fatica il
corpo il dì, la notte il cuore:
l’amante
non ha tregua dall’amore.
XXVIII
Come sperare
infine un’ora lieta,
se il bene
di un riposo mi si nega?
Cure di
giorno notte non le quieta,
notte e dì
l’uno all’altra danno bega.
Imperi
ostili vicendevolmente,
fanno
alleanza contro me, però:
l’uno mi
sfianca, l’altra fa presente
che sfiancarmi
al tuo fianco non si può.
Lusingo il
giorno con la tua chiarezza,
redenzione
di cieli nuvolosi;
madama
notte, scabra, il lume apprezza
che vicario
d’Orioni tu le posi.
Ma il
giorno è giogo lungo alla mia pena,
e notte
stenta me la fa più piena.
XXIX
Quando in
cagnesco con fortuna e fama
deploro
a solo
la magra
vendemmia –
impreco
invano a questa luna grama,
mi specchio
e sprezzo con una bestemmia
sospirando
la sorte di chi gode,
i molti
amici, il lustro che l’onora,
invidiando
a chi l’arte, a chi la lode,
più
sguarnito di quel che più m’incuora.
Ma quando
più il pensiero mi deplora,
ecco che
penso a te – la mia memoria,
lieta come
l’allodola all’aurora,
dall’impuro
all’empireo canta il
Gloria.
L’amorosa
memoria tanto vale,
che dei
fasti d’un re ride e non cale.
XXX
Quando alle
assise d’un pensiero muto
convoco le
memorie del passato,
mi strugge
un desiderio inconsumato:
nel pianto
antico il nuovo dì è perduto.
Cede al
ricordo il cuore compassato –
affetti del
passato, vite rotte
d’amici
cari, andati nella notte –
piango
d’amore un pianto rinnovato.
Così mi
dolgo dei dolori andati,
pena su
pena scrivo alle mie liste:
imposta di
tristezza, soldo triste,
nuovo
tributo a gemiti insaziati.
Ma se d’un
tratto penso a te, mia cara,
mi
risarcisco d’una vita amara.
XXXI
Dà ricetto
il tuo petto a tutti i vivi
che
contumaci mi credevo tolti;
l’amante
anatomia governa quivi
su quanti
vi dimorano, insepolti.
Quante
lacrime pie, quanto compunte
il mio
cuore devoto mi ha spillate
a buon
profitto d’anime defunte
che, vive
in te, giacevano indovate!
Tu sepolcro
d’amore che non dorme,
ostensorio
d’amanti che adorai,
poiché
danno al tuo petto le mie orme,
quel ch’era
loro, tutto per te l’hai.
I cari
volti riveder concedi
e tu, nei
molti, tutto mi possiedi.
XXXII
Se morte
cagna canta il suo
dies iræ
sulle mie
ossa mentre tu sei viva,
potresti
ritrovarti a rinverdire
i versi
rudi che io t’ammanniva.
E benché il
superarsi delle mode
li renda,
in paragone, magre cose,
tienili per
amore, non per lode,
umiliati da
menti talentuose.
E accordami
un pensiero intenerito:
“Crescessero
le muse con le forme,
ben altre
rime avrebbe concepito
l’amore
mio, in ben altra uniforme;
perduto
lui, trovato già il migliore,
di là
maestria: di qua rileggo amore”.
XXXIII
Più d’una
aurora rimirai superba
lusingare
alle vette occhi regali,
baciare
boccadoro i velli d’erba,
molar malìe
di luci celestiali,
cedere a
nembi sordidi la via,
dare ambio
turpe sul volto ridente,
stornarsi
dalla terra in ritrosia,
eclissare
furtiva all’occidente.
Un primo
sole anche per me gioiva,
recando
alla mia fronte il suo brillìo;
ma il
nuvolo il mio sguardo già impediva,
e solo per
un’ora restò mio.
Amore al
sole in terra tutto indulge,
che pari al
sole in cielo non rifulge.
XXXIV
Mi
strologhi il bel tempo, che mi dici
di partire
leggero; poi mi tendi
un’insidia
di nubi guastatrici,
lordi il
tuo sole dentro fumi orrendi;
fai breccia
nel rovescio – e non consola,
né
rasciugarmi sotto il fortunale,
perché non
salva la cura che sola
molce la
piaga né guarisce il male.
Né per
vergogna medichi il mio affanno,
perché
pentirti non mi risarcisce;
le lacrime
tardive no, non sanno
alleviare
la croce a chi patisce.
Ma nel tuo
pianto amore versa perle
sontuose,
che consolano a vederle.
XXXV
Di quel
ch’è fatto, non più ti crucciare:
la rosa ha
spine, mota le acque chiare,
eclisse e
nube lorda lune e soli,
il verme
lercio alligna nei boccioli.
Sbaglia
ciascuno; e sbaglio in questo io,
che avallo
il tuo delitto con il mio,
che mi son
perso per lasciarti illesa,
che ti
perdono ben oltre l’offesa.
A sgravio
dei tuoi crimini sensuali
cito i
sensi, avversari e tuoi legali,
e arringo
contro me, tuo difensore.
Tant’è il
dissidio tra l’odio e l’amore,
che mi
costringe complice alla stessa
ladra
gentile che tanto mi vessa.
XXXVI
Confesso
che dobbiamo essere due,
benché ci
inuni amore indivisibile,
per rendere
la vita sostenibile
senza le
forze tue.
Abbiamo un
corpo solo nell’amore
ma questa
nostra infausta divisione,
pur non
mutando effetti alla passione,
ci ruba
dolci ore.
Mai più
potrò vantarmi che sei mia,
o la mia
onta ti sarà vergogna.
Piàcciati
di sfuggire a quella gogna:
salvo
l’onore sia.
Che del tuo
onore, poiché mia ti dici,
ricevo i
generosi benefici.
Come un
padre vegliardo gode forte
del figlio
nel vigore zenitale,
anch’io,
storpio per cara malasorte,
tolgo ogni
mio conforto dal tuo sale.
Bellezza
nobiltà vigore ingegno –
una di
queste o tutte o altra ancora
sia la
virtù sovrana del tuo regno,
nel novero
l’amore mio dimora.
Né sono
storpio o misero o pietoso
se
dall’egida tua prendo sostanza
vitale
dentro il tuo tutto glorioso,
e sto
contento della tua abbondanza.
Scegli nel
meglio, e il meglio ti sia dato:
anch’io sia
dieci volte più beato.
XXXVIII
Perché
cercare ispirazione al canto
se tu
respiri, che doni al poeta
la materia
di te, fin troppo vanto
perché una
carta grama la ripeta?
Merito a
te, se trovi ai miei rimari
parlari
degni della tua lettura;
che muto
può tacerti, cui appari
chiarità
stessa d’ogni trovatura?
Decima
musa, rara dieci volte
più delle
nove note a’ trovatori,
per colui
che t’invoca fa’ risolte
le cifre
eterne degli eterni allori.
Esile musa
mia, piaci ai moderni:
mia pena e
lode tua, questi quaderni.
XXXIX
Con che
contegno canterò il tuo pregio,
florilegio
del meglio che posseggo?
Di sé
l’elogio, di’ s’è vero fregio,
quand’è di
te la lode che ti leggo.
Per la qual
vece ti vivo randagio,
declino
amore in numero duale,
così che
via da te io trovi ad agio
quel che
per te soltanto vige e vale.
Assenza,
che più fiera strazieresti
senza
l’ozio molesto che si sazia
di pensieri
d’amore cari e lesti,
tu inganni
tempo e mente in tanta grazia,
e l’uno
d’esser due rendi capace,
cantando
qui colui che altrove giace.
XL
Prendi il
mio amore, amore, àbbilo intero:
che sarà
tuo, che già non possedevi?
Non sarà
amore, amor, dico sincero,
perché
l’amore mio tutto l’avevi.
Se per
amore, amor, mi fai violenza,
allora
l’amor mio ti sia strumento:
ma
quell’inganno non avrà clemenza,
di chi si
forza a prenderne alimento.
Ladra
gentile, io t’ho perdonato
d’avermi
tolto quel denaro vile:
amor sa
ch’è destino più spietato
subir torto
amoroso, che onta ostile.
Grazia
lasciva, specchio di bellezza,
trafiggimi
così: ma senza asprezza.
XLI
I begli
oltraggi che la libertà
t’istiga,
quando siamo separati,
s’addicono
al tuo lustro, alla tua età,
cui sempre
tentazione tende agguati.
Nobile sei,
che vincerti è fatale;
formosa
sei, che farti guerra è d’uopo;
se carne
chiama, che figlio carnale
la stornerà
severo dal suo scopo?
Eppure sì,
potresti contentarti,
smettere la
tua giovane bellezza
randagia,
che ti travia in quelle parti
dove due
volte il giuramento spezza:
il suo,
bella che tenti e che l’insidi,
il tuo,
bella che menti e mi deridi.
XLII
Né che tu
la possieda è il più cocente
dei crucci
– e l’adoravo, ben concesso;
ma lei
possiede te – piange la mente
il lutto
che la tocca più da presso.
Corrèi
d’amore, non di voi mi lagno:
tu l’ami
perché anch’io amavo lei,
lei pure mi
fa torto a mio guadagno
buscando
quel che sa che approverei.
Sì, ti
smarrisco al pro di chi mi strugge,
e perdo lei
per il tuo buon profitto;
l’un l’altro
vince e l’uno e l’altro fugge,
ciascuno
per amore mi ha trafitto.
Ma noi due
siamo uno! e torna il riso:
l’amor di
lei m’è dolce e non diviso.
XLIII
Quanto più
serro il ciglio, meglio colgo
quel che a
giorno m’è faglio e mena abbaglio;
nel sonno,
occhi di sogno ti rivolgo
e, nere
luci, luci al nero scaglio.
E tu che
d’ombra l’ombre in luce adorni,
che forme
d’ombra accendi in ogni forma?,
ombra che
brilli più chiara dei giorni,
scabro
contorno in bruma e brava orma.
Come la
vista vorrebbe bearsi
di
rivederti in vera luce viva,
se alla
pupilla cava sa scavarsi
la forma
tua, quando la notte arriva?
Nero il
meriggio, perché non ti scorge;
lume la
notte, se in sogno ti porge.
XLIV
Fosse
pensiero, questa carne greve,
della
distanza non mi struggerei:
qualunque
spazio correrebbe lieve
fino alla
lontananza ove tu sei.
E che
m’importa, se dovessi stare
per strade
e case che ti son straniere?
la mente
varca a volo terra e mare,
e concepir
la mèta è possedere.
Penso,
funesto, che non son pensiero,
non vàlico
le miglia che ti vanno:
corpo
concreto e duro, opera al nero,
gemo
aspettando il giorno, ch’è tiranno.
Atomi
lenti, io mi vi rassegno
con lacrime
pesanti, triste pegno.
XLV
Due voci:
Arialeggera e Fiammapura
sono con
te, dovunque io mi sia;
una è il
pensiero tuo, l’altra è la cura:
presenze
assenti, mosse in leggiadria.
Voci veloci
mie, recate intanto
la
legazione di un amor gentile –
altre due
voci intonano un discanto
di morte e
di mestissima atrabile.
Poi mi
richiama in vita l’armonia
delle due
messaggere che hai vedute:
eccole
rincuorate sulla via,
mi dicono
“è felice, sta in salute”.
Ascolto e
godo. Ma non prendon fiato,
che le
rimando indietro, preoccupato.
XLVI
D’occhio e
di cuore la guerra incrudisce,
che
contendono il bene del tuo volto.
L’occhio la
tua visione gli proibisce,
il cuore
quel diritto gli vuol tolto.
Obietta il
cuore che tu giaci in lui,
stanza che
non concede trasparenza;
impugna
l’argomento l’altro, cui
solo
verrebbe data l’apparenza.
Dirime la
contesa una giuria
d’idee, del
cuore assidue dozzinanti,
dal cui
verdetto arbitrato sia
fra ’l
chiaro e ’l caro dei due postulanti:
l’occhio
della tua forma è creditore,
il cuore
del più intimo d’amore.
XLVII
D’occhio e
di cuore un’alleanza nasce
che in buon
servigio l’uno all’altro chiama;
quando
languisce l’uno nelle ambasce
o l’altro
alla tua immagine s’affama,
in fasto di
figure l’occhio ha festa
e invita il
cuore al desco degli affreschi;
oppure
l’occhio presso al cuore resta,
che in
argomenti erotici l’intreschi.
Sia per
figura sia per ragionare,
assente, tu
mi sei vicina ancora
se il mio
pensiero non sai divanzare
che mi sta
accanto e accanto a te dimora;
sopìti
entrambi, la tua vista preme:
spiccia al
piacere il cuore e l’occhio insieme.
XLVIII
Quanto mi
feci scrupolo al partire
di mettere
ogni inezia sotto chiave:
nulla ch’è
mio doveva pur finire,
dalle mie
cure assidue, in mani prave!
Tu, gemma
che ogni altra rendi impura,
sommo
conforto, massimo dolore,
bene fra i
beni, unica mia cura,
tu sei la
preda al ladro, al grassatore.
Non ti
trattiene chiave di forziere
se non dove
non sei – come a me pare:
al fondo
del mio petto tesoriere,
onde a
capriccio sai venire e andare.
Persino là
sarai – temo – rapita:
rende ladro
il virtuoso preda ambita.
XLIX
Contro quel
giorno, ove quel giorno giunga,
che ti
vedrò adirata alzarmi il ciglio,
e amor
recare la sua somma lunga,
mosso a
bilancio da miglior consiglio;
contro quel
giorno che t’avrò straniera,
passante
senza il bene d’un saluto,
che amore
non ricordi più com’era,
severa d’un
pensiero grave e muto,
contro quel
giorno è questa apologia,
scritta in
coscienza della mia pochezza:
questa mia
mano mi condanni, e sia
tutrice del
diritto che mi spezza.
Legge ti
toglie a me, con le sue armi,
ché non
diedi moventi per amarmi.
L
Quant’è
gravoso accingersi ad andare,
quando la
mèta triste dell’andata
non offre
altro conforto che contare
le miglia
dall’amata.
Il mio
ronzino, dal dolore vinto
che mi fa
greve, va con la sua ambascia
come
sapesse, il misero, d’istinto
che non
corre, chi lascia.
Morso di
sprone non gli ridà lena,
ben che
confitto pur con rabbia al fianco;
più che
ferisca lui, a me dà pena
il suo
lamento stanco.
Mi mette in
cuore, quel lamento tetro,
che innanzi
è la tristezza: e gioia indietro.
LI
Così
perdoni amore il tardo indugio
del mio
cavallo, quando mi congedo.
Perché
affrettarsi via dal tuo rifugio?
finché non
torno a te, glielo concedo.
Allora, sì,
l’indugio è dannazione,
quando una
corsa folle è troppo lenta:
persino
all’ippogrifo darei sprone,
parrebbe
ferma l’ala che si avventa.
Non c’è
morello svelto da bastarne,
se
desiderio astratto d’amor vero
infuria in
corsa e va, vìvida carne.
Amore, tu
perdona il mio destriero:
al tuo
congedo andava al trotto, lasso –
ora corro
da te: lui segna il passo.
LII
Eccomi: il
ricco cui la chiave ambita
dischiude
il preziosissimo forziere –
ma non gli
viene assiduo il rivedere:
raro piacer
fa vista più rapita.
Vi han
poche feste grandi: in guisa tale
che, rade
al lungo circolo dell’anno,
pietre più
pure al suo castone fanno,
diamanti
solitarî al suo bracciale.
Come uno
scrigno, il tempo che t’avvera,
arca
solenne d’abito sfarzoso,
fa l’attimo
supremo più prezioso
svelandone
la gemma prigioniera.
Gemma
sublime, cui donare piace
gloria al
presente – boria al contumace.
LIII
Quale
sostanza incarna le tue membra,
mille volte
riflessa?
Ad ogni
corpo un’ombra propria sembra –
la tua,
mutar non cessa.
Caro ai
pittori, Adone in mille carte
vuol
fingerti, prosaico;
Elena, pur
dipinta a norma d’arte,
è il tuo
ritratto arcaico.
Di’
primavera, o tempo di raccolto:
l’una è la
tua bellezza,
l’altro fra
le tue doti viene tolto.
In te sta
ogni chiarezza:
ad ogni
grazia estranea dài sostanza –
impareggiato
il cuore, per costanza.
LIV
Quanto più
bella appare una bellezza
quando
s’adorna d’una vita piena:
bella la
rosa, e più bella s’apprezza
per quel
dolce profumo che l’invena.
Rosa canina
ha fiamma d’ugual fuoco
quant’è nel
fior di serra, più odoroso:
pari le
spine, pari il lieto gioco
d’alito
estivo al bocciolo ritroso.
Rosa di
campo è bella né pregiata,
vien
disamata in boccio, umile in fiore,
sfiorisce a
sé. La rosa coltivata
muore soave
in suo soave odore:
così di te,
giovane bell’amica,
sfiorito il
boccio, la poesia ridica.
LV
Né i marmi,
né dei prìncipi dorate
l’effigi
hanno potere di poesia:
maggiore
luce a te nei versi sia,
che in
pietre antiche, turpi d’anni grigi.
Odiosa
guerra scalzerà la statua,
le mura
periranno ad un tumulto:
ardere non
saprà il tuo vivo culto
spada di
marte, con sua fiamma fatua.
Contro la
morte, contro ingrato oblio
tu durerai;
la tua virtù sia nota
all’uomo
che farà girar la ruota
della
fortuna, e così piaccia a dio.
finché la
tromba del giudizio canti,
vivrai nei
versi agli occhi degli amanti.
LVI
Amore fàtti
forte, mordi amore,
mordi la
carne più che morda fame,
fàtti
nutrire, cedi al tuo languore,
poi torna
ad affilare le tue lame.
Divora
amore, sazia quel tuo sguardo,
sàziati
adesso, inèbriati – e domani
ancora
tendi l’arco, incocca il dardo,
fa’ che i
tuoi strali volino lontani.
L’assenza
ci sommerge nei suoi flutti
e le tue
sponde dalle mie separa;
quando i
marosi si faranno asciutti,
ritornerò
alla riva a me più cara.
Gelo
d’assenza, inverno mesto e morto –
verrà
l’estate e porterà conforto.
LVII
Schiavo di
te, che altro fa mestieri
che
secondarti, come e quando brami?
Non ho
minuti eletti ai miei voleri,
né devo
nulla, finché tu non chiami;
né biasimo
quei quando interminati
che,
padrone a me stesso, scruto l’ora;
né impreco
i morsi dell’assenza ingrati
dopo il
congedo dalla mia signora;
né mi
struggo così, gelosamente –
dove tu
sei, che laccio ti possiede;
vile e
servile sto, pensando a niente
se non
quant’è beato chi ti vede.
Tant’è
folle l’amore, a giudicarlo;
di che tu
faccia, non lo rode il tarlo.
LVIII
Proibisca
il dio che mi ti fece servo
ch’io nel
pensiero freni i tuoi diletti,
che
mendichi conferme ai miei sospetti.
Sono
vassallo: la tua legge osservo.
Ch’io possa
tollerare dal tuo gesto
l’arbitrio
onde s’impone amara assenza,
soffrire
ancora e sempre con pazienza,
né con
accuse rendermi molesto.
Va’ dove
credi: tant’è il tuo diritto.
In ogni
tempo il tempo sia affidato
al tuo
capriccio, ché a te sola è dato
di
perdonarti per il tuo delitto.
A me tocca
l’attesa, pur crudele:
sia bene o
male, io ti son fedele.
LIX
Se nulla è
nuovo al mondo, e solo esiste
quel che
già fu, guardate l’impostura:
travaglio
d’invenzione ancora insiste
a ridar
parto a vecchia creatura.
Potessi
riguardar senza fatica
di là da
cinquecento anni del sole,
saprei il
tuo viso da una carta antica,
quando
nacquero i segni alle parole,
saprei il
pensiero di quei vecchi dotti
di fronte a
te, perfetta meraviglia:
se il tempo
fa migliori o più corrotti,
se il
volger delle cose si assomiglia.
Ma sono
certo che i passati ingegni
dissero
lode ad esseri men degni.
LX
E come
l’onda al sasso sulla rena,
così va la
risacca degli istanti:
poi che
ogni primo il suo secondo mena,
precìpite
teoria che corre avanti.
Creatura
pur venuta a luce, lesta
si fa
matura, in più pieno splendore;
ma il sole
eclissa – insidia già funesta,
e il tempo
dona e toglie, traditore.
Trafigge il
tempo i fiori del passato,
spinge
l’aratro sulle fronti liete,
si nutre
del fior fiore che ha creato,
né si dà
scampo, quando falce miete.
Pure, al
futuro lascio questo canto:
possa,
vincendo il tempo, esserti vanto.
LXI
Perché alla
notte fonda il tuo sembiante
affidi? che
il mio occhio non riposi?
Laceri al
sonno i veli vaporosi,
m’illudi
con un’ombra somigliante?
Perché
metti una fredda parusìa
a
sorvegliarmi il giorno, a te remoto,
scoprirne
la vergogna, il tempo vuoto,
esca e
sostentamento a gelosia?
No. L’amor
tuo, pur grande, non può tanto.
L’amore
mio, lui non è mai spossato:
devoto
amore in veglia, mi ha chiamato
a
sorvegliarti sempre, a starti accanto.
Io sono la
tua guardia. E tu ti dèsti,
lontana, al
fianco d’uomini più lesti.
LXII
Amor di sé
mi pecca dentro agli occhi
e dentro
ogni latèbra, ogni lacerto;
contro di
che, non c’è preci o malocchi,
tanto nella
mia fibra sta conserto.
Nessun bel
viso pare pari al mio,
forma più
vera, vero più valente;
della mia
valentìa diviso io,
che in
tutto valgo più dell’altra gente.
Ma se lo
specchio mi rivela al vero,
pesto e
crepato d’una concia frusta,
l’amor di
sé mi appare menzognero
e amarsi in
tanto fasto è cosa ingiusta.
Per te, mio
io, giocavo al vagheggino
frescando
del tuo meglio il mio declino.
LXIII
E se, come
son io, sarà l’amata
logora e
guasta dal tempo mannaro,
la bella
fronte riarsa e deturpata
di mille
rughe, se il suo giorno chiaro
conoscerà
il crepuscolo senile,
se la
bellezza che le fa stendardo
involerà i
tesori del suo aprile,
languida
infine, persa ad ogni sguardo –
contro quel
tempo edifico il bastione
trionfatore
dell’età che strugge,
perché
perpetua sia l’evocazione
della
bellezza, quando vita fugge.
Questo
tesoro affido – in nero – ai fogli,
che n’abbia
sempre nuovi i suoi germogli.
LXIV
Vedo il
tempo sfregiare a mano brava
gl’insepolti
giacigli del prestigio,
radere
torri, e tutto ciò che stava,
dare
all’ultima furia ogni fastigio.
Vedo il mare
vorace trarre a briglia
ad uno ad
uno i regni alla salsèdine,
liquida
landa che ghermisce e piglia,
pingue per
guasti, guasta per pinguèdine.
Vedo
volgere stato ad ogni mole,
e d’ogni
stato volgere squallore;
e tanta
fola dimostrarmi vuole
che fugge
il tempo, e porta via l’amore.
Pensiero
morto – né può far diverso:
piange
d’avere ciò che teme perso.
LXV
Se bronzo e
pietra e terra e immenso mare
son
sopraffatti, quando morte afferra,
come
bellezza potrà mai scampare
con la
forza d’un fiore alla sua guerra?
Come
salvare un alito d’estate
dal tempo
che devasta e reca assedio,
se cedon le
città fortificate,
se duro
acciaio è fragile rimedio?
Come
togliere al tempo, dubbio atroce,
la gemma
più pregiata dal suo scrigno?
Chi può
arrestare il passo suo veloce,
chi può
salvare il bello dal maligno?
Nessuno. Ma
un miracolo redime:
dar luce al
nostro amore, con le rime.
LXVI
Morte
sarebbe molto meno amara
del povero
destino di chi vale,
della
trionfante nullità somara,
dello
spergiuro usato a chi è leale,
di tanta
simonìa, tanta vergogna,
del
mercimonio di persone pure,
dell’ideale
in mano alla carogna,
del genio
imbavagliato da censure,
del forte
che ha ceduto a corruzione,
del vero
ch’è spacciato per banale,
della
follia maestra d’ogni azione,
del bene
schiavo d’un perverso male.
Morte
sarebbe molto meno ingrata –
ma
lascerebbe sola la mia amata.
LXVII
Perché
vivrebbe là dove le attòsca
e darebbe
salvezza all’empietà
colei che
la menzogna adunghia losca,
stringendola
alla propria società?
Perché
ritrarre in falso il suo sembiante
cavando
nero vacuo a tinta pretta?
bellezza
grama, fatta mendicante
d’ombre di
rosa, cui la rosa è schietta!
Perché
vivrebbe se natura schiatta
spillando
sangue al cavo delle vene,
che non
altro ricavo s’arrabatta,
e vanitosa
vive del suo bene?
Natura la
vuol viva per provare
la vecchia
pompa d’epoche più chiare.
LXVIII
Vestigio,
il suo bel viso, delle ore
dove il
bello sfiorì come la rosa
e venne,
nuovo, un bello usurpatore
che la sua
marca sulle fronti posa.
Fatta
tonsura delle trecce d’oro
dei morti,
sigillate nei sepolcri,
ad altre
chiome si ridà decoro,
che il
vello di bellezza ancora appulcri.
In lei si
vede il primo tempo sacro,
spoglio
d’orpello, veridico e schietto,
che d’altre
estati non fa simulacro,
che a
vecchi sfarzi non prende belletto.
Natura la
conserva come indizio
che mostri
il bello eterno al surrettizio.
LXIX
Quel che di
te l’occhio del mondo scorge
non domanda
al pensiero altri artifici:
lode la
lingua dal cuore ti porge,
verità
mera, pure ai tuoi nemici.
Ti corona
così la lode fuori:
ma quelle
lingue che ti fanno il coro
lordano poi
la lode d’altri umori,
vedendo più
che l’occhio mostri loro.
Vogliosi di
veder quel ch’è ritroso,
lo stimano
a misura del tuo gesto;
nobili
d’occhio, di pensiero ozioso,
d’odor di
loppa il giglio fanno pesto.
Se fuori il
fiore aromi non effonde,
ce n’è
ragioni: cresce in terre immonde.
LXX
Che ti
s’accusi non ti dà difetto,
se ai belli
la calunnia è marchio usato;
il bello è
l’ornamento più sospetto,
corvo che
nel celeste va librato.
Sta’ lieta,
e chi ti mente in tanto aumenta
il tuo
valore, che il tempo seduce:
il verme
elegge il boccio dove avventa,
e il tuo
rigoglio è chiaro per più luce.
Passi dei
giorni acerbi l’imboscata
intatta, o
vittoriosa a quella possa;
ma tanta
lode non è mai bastata
a
rintuzzare invidia che s’ingrossa.
Non
sgomentasse un che di torvo fuori,
sgomineresti
eserciti di cuori.
LXXI
Quando si
tace la campana ostile
che mi
manda ai defunti, non volermi
piangere
ancora, se dal mondo vile
vado a più
vile vivere di vermi.
Se scorri
questi versi, abbi scordato
la mano di
chi scrive, che ti ha cara
tanto che
più gli è dolce essere obliato,
se la sua
rimembranza riesce amara.
E se, ti
dico, leggi questa riga
quando sarò
composto nel mio campo,
al mio
povero nome non dar briga
e lascia
amore e vita senza scampo,
che quei
pedanti, del tuo lutto accorti,
non diano
gabbo a te con i tuoi morti.
LXXII
E perché il
mondo non domandi nota
di quale
pregio in me ti stesse a cuore,
alla mia
morte scòrdati ogni jota,
amore,
perché in me non c’è valore.
Vorresti
escogitare belle fole
a maggior
gloria di quello che fui?
ornare il
morto con buone parole
che il vero,
avaro, leverebbe a lui?
Perché il
tuo amore non mentisca, come
colui che
finge fiabe per amore,
accanto al
corpo seppellisci il nome,
che per
vergogna non perdiamo onore:
vergogna
mia, del poco che son stato;
tua, che
quel poco devi avere amato.
LXXIII
Quella
stagione forse in me riguardi
che poca
foglia fa più sparsa e livida
sul ramo
che nel gelo già rabbrivida,
cantoria
spoglia per gli uccelli tardi.
In me
rimiri forse la compieta
che dal
meriggio scende sul ponente
e che la
notte annera nel suo niente,
seconda
morte che ogni cosa quieta.
In me cogli
il barbaglio della brace
che indugia
sulle ceneri trascorse,
e sfatta da
quel cibo che pur morse,
come in un
letto funebre si giace.
Questo tu
vedi, e con più forte amore
ami quel bene
che ben presto muore.
LXXIV
Ma sta’
contenta, se i neri gendarmi
senza
riscatto mi daranno arresto.
Di questi
versi saprò ben giovarmi,
che lascio
alle tue mani il mio regesto.
Se riguardi
il mio libro, ti sovviene
quel che di
me per te si è fatto santo:
terra alla
terra, come si conviene,
ma lo
spirito è tuo, di che mi vanto.
Avrai
perduto allora la mia feccia,
pastura ai
vermi, moritura scoria,
preda
codarda di misera freccia,
materia
indegna della tua memoria.
Il suo
valore è il vero sotto il vello,
e l’hai
davanti, perché questo è quello.
LXXV
Sei al
pensiero come al corpo è manna,
come alla
terra una pioggia di marzo;
nella tua
pace, una guerra mi affanna
così come
all’avaro nello sfarzo.
Ora
gaudente e fiero, poi dubbioso
del tempo
ladro, che mi furi l’osso,
ora a
quattr’occhi tutto sospiroso,
smanioso
poi per occhi d’altri addosso;
presto
ristucco e sazio di vedere,
ma subito
lo sguardo mi è digiuno;
né prendo
né pretendo altro piacere
che le
delizie che per te raduno.
Così manco
o manduco volta a volta
di quella
manna che mi è data e tolta.
LXXVI
Perché il
mio verso è scevro d’altri vezzi,
parco di
variazioni e trovature?
perché col
tempo non gli diedi attrezzi
di nuovi
stili e strane composture?
Perché intono
una sola litanìa
e vesto il
genio in lane poco tenere,
che le rime
ripetano in fratrìa
un solo
genitore e un solo genere?
Sappi, amor
mio, che sempre di te scrivo,
e tu e
l’amore siete il tema; e voglio
vestire a
nuovo il verbo più corrivo,
spendere il
soldo speso, e con orgoglio.
Il sole è
vecchio e nuovo in ogni aurora:
l’amore,
quel ch’è detto dica ancora.
LXXVII
Spaccia lo
specchio grazia decadente,
la
meridiana, buon tempo che vola,
i fogli
intonsi, gusci della mente,
e questo
libro spaccia una sua scuola:
la ruga
cruda che ti si rivede
è allegoria
di tomba sbadigliante,
lo gnomone
furtivo che procede
è il tempo
ladro, eterno camminante;
quel che
memoria non ritiene, duri
nelle
pagine vuote, dove i figli
dell’intelletto
troverai maturi,
e dal tuo
senno avrai nuovi consigli.
A questa
norma, quanto più ti tieni,
tanto
profitti e rendi i libri pieni.
LXXVIII
E quanto ti
ho chiamata, musa mia,
che vegli
sui miei versi così vaga
che ogni
altra penna della mia si paga,
quando ai
tuoi piedi sciorina poesia.
Con la tua
guida il bleso fa quilisma,
lo zotico
più greve spicca il salto,
e vola
l’ala al chierico più in alto,
se grazia
gli raddoppia il tuo carisma.
Ma più per
quel ch’io scrivo puoi bearti,
che in te
procede e solo te seconda:
agli altri
carmi fai la rima monda
o ti
benigni di polirne l’arti;
ben più
maestra del mio estro, innalzi
al
magistero questi passi scalzi.
LXXIX
Finché io
solo supplicavo aiuto
davi al mio
verso tutta cortesia;
ma il metro
delle grazie è decaduto
e ad altri,
musa gracile, dai via.
Amore, so
che la tua dolce trama
vuole il
travaglio di penna ministra;
ma se un
ingegno tutto in te si chiama,
quel che ti
toglie, ancora ti ministra.
Ti dà virtù,
e prende quel concetto
dal tuo contegno;
poi grazia t’arriva,
che trova
alle tue guance; e non fa pretto
nessun
elogio che in te già non viva.
Non esser
grata per quel che ti dice,
che di quel
dono sei la creditrice.
LXXX
Scrivo di
te – vacillo per paura,
so che un
maggiore ingegno fa il tuo nome
e scrive
encomi colmi di bravura,
sicché
cantarti, non saprei più come.
Ma ’l tuo
valore è mare dove piglia
abbrivio ’l
minor legno come ’l fiero;
audace ben
che poco, mette chiglia
caparbia al
tuo gran tutto il mio veliero.
Manda una
schiuma che mi tenga a galla,
mentre
l’altro cavalca i tuoi fondali –
io nave
grama, preda d’una falla,
lui alto e
grande sopra i fortunali.
E se io
stento, incede lui con agio,
il peggio è
che l’amore m’è naufragio.
LXXXI
Sia che io
scriva sopra le tue spoglie,
sia che tu
viva quando sarò terra,
la morte il
tuo ricordo non mi afferra,
che alla
memoria tutto mi distoglie.
Di qui il
tuo nome al sempre si conduce,
quando a me
morto il mondo dice requie;
la terra sa
donarmi solo esequie –
tu,
sepolta, vivrai per l’altrui luce.
Lapide sia
questo mio verso attento
che un
occhio in mente Dei
veda e
distingua,
che sillabi
una nascitura lingua
quando il
respiro dei viventi è spento.
Vivrai per
la virtù di chi ti scrive
dentro il
respiro di più bocche vive.
LXXXII
E non ti è
sposa la mia musa, dico:
non è
adulterio, se farai lo spoglio
del gergo
aduso che, d’amore amico,
all’amore
dà lustro, foglio a foglio.
Bella per
grazia e per dottrina bella,
tu che per
pregio eccedi il mio peana
vorrai
cercare quel che rinnovella
il tuo
ritratto, nel giorno che sana.
E così fa’
– benché quand’altri ingegni
abbian
cavato il meglio dal lambicco,
la tua
bellezza schietta si disegni
più
schietta in stile vero e meno ricco.
La tinta
grossolana si conservi
per guance
smorte – tu non te ne servi.
LXXXIII
Non vidi
mai che bisognasse biacche
al tuo bel
viso che non vuol colore;
ti seppi,
ti credetti oltre le fiacche
profferte
che può farti il rimatore.
E nel tuo
canto fui troppo infingardo,
ma la tua
luce eccelsa per sé mostra
che la
penna mediocre ha passo tardo
a dire il
bene che per te s’inchiostra.
A te questo
silenzio parve accidia,
mentre il
mio miglior vanto è d’esser muto;
tacendo,
alla bellezza non do insidia,
ma i versi
altrui pur troppo hanno nuociuto.
Vive più
vita in uno dei tuoi sguardi
che lodi
l’uno o l’altro dei tuoi bardi.
LXXXIV
“Soltanto
tu sei tu”. Quale miracolo
migliore un
miglior fabbro ti sciorina,
se questo
motto immura il ricettacolo
della
misura che ti fa dottrina?
Miseria
pena dentro quella penna
che al suo
tema una gloria non consegna;
chi
poetando di te soltanto accenna
che tu sei
tu, già scrive cosa degna.
Lascia che
copi quello che ricoglie –
purché non
guasti quant’è nato terso –
se tanta
fama il suo genio ritoglie
e l’unanime
lode del suo verso.
Ma una
malìa ti strega la bellezza,
che pur
ghiotta di lodi, le deprezza.
LXXXV
O musa
blesa che mi fa ritegno
quand’altre
rime, di ricca fattura,
danno al
tuo nome un calamo più degno,
ornato
d’altre muse con bravura.
Ben penso
quel che altri scrive bene,
come un
chierico chioso “così sia!”
all’inno
che dai più capaci viene
in belle
forme, piene di maestria.
Ai tuoi
elogi echeggio “è certo! è vero!”
e giungerei
del mio ad ogni rima;
ma la
parola giace nel pensiero:
ultimo
viene il verbo, amore è prima.
Godi degli
altri il lessico stupendo:
di me il
silenzio, che dice tacendo.
LXXXVI
Per la gran
vela gonfia del suo liuto,
tesa alla
volta della tua cattura,
il mio
pensiero colmo s’è sparuto,
greve nel
grembo che gli dà fattura?
la mano che
altre anime ha maestre
a scriver
più che umana, mi basisce?
Non lui, né
quei fantasmi che fan destre
le strofe
sue, la mano m’impietrisce,
non lui, né
gli altri spettri coadiutori
che colmano
le notti con dottrina
mi
stringono al silenzio, vincitori;
non è di
qui il timore che mi strina:
se il verso
gli ricolma il tuo favore,
per meno
mole il mio perde vigore.
LXXXVII
Addio –
troppo costosa per averti,
se la tua
stima sai fin troppo bene.
Di quanto
ti si crede sai valerti:
il mio
credito a te tutto riviene.
Come ti
avrei, se non per garanzia?
con che
titoli tiro tanta lenza?
La volontà
chiamava alla razzia,
ma ne vien
revocata la licenza.
A me ti
desti, ignara del tuo pregio
o troppo
generosa col mio censo;
falso in
bilancio, questo privilegio
ritorna a
te, dietro più cauto penso.
Ti ebbi
come in sogno piace avere:
letto di
re, livrea di cameriere.
LXXXVIII
Quando
vorrai portarmi alla berlina
e allo
scherno di me darai la stura,
al tuo
fianco farò la mia rovina
e mostrerò
virtuosa te, spergiura.
Miglior
perìto delle mie malarie,
saprò
vergare al tuo buon pro la storia
dei vizi
occulti che mi fanno carie,
sì che
perdendo me, guadagni gloria;
anch’io del
mio guadagno mi compiaccio,
se amor che
in te riflesso tutto pensa
delle
ferite che a me stesso faccio,
pagando te,
due volte mi compensa.
Tanto son
tuo, tanto mi tiene affetto,
che a tuo
conforto il peggior torto accetto.
LXXXIX
Di’ che mi
lasci per torto subìto:
mi farò
usciere del tuo tribunale.
Chiamami
zoppo: ristarò basito,
indifeso
all’accusa che mi assale.
Non puoi
darmi metà dello zigrino –
se vuoi
mutare il mio contegno ad arte –
di quel che
scientemente mi commino.
Ti sarò
strano, ti starò in disparte,
ti andrò
fuori di via, che non m’azzardi
a
pronunciare il dolce nome amato,
e per somma
imperizia non sbugiardi
l’intimità
del nostro tempo andato.
Tuo
giurato, mi accuso dal mio podio,
né amerò
mai colui che prendi in odio.
XC
Òdiami, se
mai devi: òdiami adesso
quando ogni
vece mi si volge al peggio;
complice al
fato, fammi sottomesso
e non
menare al vinto altro saccheggio.
A me
scampato, o quel che ne rimane,
risparmia
retroguardie d’altra ghigna;
la notte è
lusca: non dar pioggia a mane,
che
trascini a rovina più maligna.
Se mi
lasci, non sia l’ultima pena
quando mali
scipiti han fatto ressa;
vieni per
prima, che per prima mena
il peggio
della sorte che mi vessa.
Altre sorte
di mali ora son mali
che, persa
te, non paiono più tali.
XCI
C’è chi
vanta antenati, chi talenti,
chi
patrimoni e chi possa di mani,
chi –
vesanìa vanesia – vestimenti,
chi
cavalli, chi poi falconi e cani.
Ogni tempra
coltiva i suoi diletti
e ne
procura gioie superiori;
io nei parziali
trovo gli imperfetti,
se
nell’ottimo inuno i miei migliori:
il tuo
amore val meglio d’un blasone,
più ricco e
fiero che monete e manti,
più grato
di cavallo e di falcone –
accanto a
te, conviene che mi vanti,
risicando
però che tu mi tolga
quel che mi
dai, e male me ne incolga.
XCII
Come che a
farti furto t’inciprigni,
nei muri
della vita tu sei mia;
fuori
d’amore altra vita non sia,
se non in
quanto amore mi designi.
E che
temere dal male maggiore,
se il
minimo dei mali già mi uccide?
Ma una
sorte più fausta mi sorride,
franca dai
tuoi mercuri dell’umore.
Quell’incostanza
non mi può ferire,
se la vita
riposa sul tuo broncio.
Così mi
vinco il titolo più acconcio:
lieto
d’averti, lieto di morire!
Che resta
santo sopra ogni sospetto?
se mi sei
falsa, io non me l’aspetto.
XCIII
Così vivrò
credendoti fedele,
come un
marito becco; in viso ancora
l’amore
pare amore, che va in fiele –
l’occhio
rimane, il cuore non dimora.
Dentro i
tuoi occhi l’odio non ha posto,
e se
mutasti, tutta ti somigli.
In quanti
sguardi il cuore ha ben riposto
storie di
flemme, rughe, altri cipigli!
Ma nel
crearti crede il tuo creatore
che sul tuo
viso amore sempre indugi:
nient’altro
mostri, che non mostri amore,
quali che
sian le mene e i sotterfugi.
Pomo di Eva
cresce la bellezza,
se inganna
con l’aspetto che carezza.
XCIV
Chi sa
ferire e dice
posse et
nolle
,
chi mostra
ma ministra il suo potere,
chi muove
il mondo ma ristà in panciolle,
chi è
freddo e refrattario nel piacere,
costui per
dote busca il paradiso,
economo dei
beni di natura;
è signore
assoluto del suo viso,
furieri gli
altri della sua pastura.
Dolce
all’estate il fiore dell’estate
che a sé
soltanto prospera e poi muore;
ma se lo
piglian ruggini malate,
alle
sterpaglie cede, in disonore.
E più
s’inagra il dolce, a dargli mano:
il giglio
guasto ha peggio odor che il guano.
XCV
E
nell’infamia, che delizia infondi,
se come il
verme nella rosa fresca
rode il tuo
fior di nome in morsi immondi!
con che
dolcezza il tuo peccato adesca!
Chi ridica
la storia dei tuoi giorni
e chiosi
con malizia le tue imprese,
non che
biasimo, fa che lode torni
al nome la
cui fama fa cortese.
Guarda in
che reggia albergano quei vizi
che ti
hanno eletta per propria dimora,
dove il
decoro vela in trine e pizzi
le magagne
che l’occhio non deplora!
Tienti
caro, tesoro, questo lusso:
a mani
incaute, ogni coltello è smusso.
XCVI
Chi ti
deplora acerba e chi vogliosa,
chi ti
rimira acerba e spiritosa;
vizio o
virtù piace dovunque posa:
tu d’ogni
vizio fai virtù graziosa.
Come sul
dito dell’imperatrice
pare
diamante la pietra infelice,
così
l’errore di cui sei latrice
traluce in
vero, e vera ti si dice.
E quanti
agnelli avrebbe il lupo atroce,
se
d’agnello sapesse avere voce!
quanti
adoranti avresti messi in croce,
usando del
potere che gli nuoce!
Tu non
usarne – perché chi ti ama
possiede
te, con la tua buona fama.
XCVII
Come un
inverno questo nostro altrove
di amanti
che confortavamo l’anno.
Quanti geli
ho patito, quanto affanno:
Dicembre
desolato in ogni dove.
Crebbe
l’estate, Orione disadorno,
poi un
autunno màdido, e il germoglio
diede una
spiga flòrida, un orgoglio
di donna
pregna e vedova in un giorno.
Messe
sontuosa, e solo a me pareva
un’orfana
chimera, un frutto spurio,
perché
senza di te languiva Sirio
e l’uccello
del Sole si taceva.
Tace, e se
canta non ha voce viva.
Sbiancano i
rami, un altro inverno arriva.
XCVIII
Fummo
lontani in primavera: e aprile,
umor
screziato in abito sontuoso,
dava alle
cose un soffio giovanile
(rideva
anche Saturno, il permaloso).
Né il canto
degli uccelli, né l’odore
dolce dei
fiori, essenze variopinte,
sapevano
ispirare estate al cuore –
né io ne
colsi le beltà distinte.
Non mi
sedusse il candido dei gigli,
né io lodai
il vermiglio nelle rose:
erano al
piacer mio meri consigli,
immagini di
te, seconde cose.
Durava
inverno agli occhi, e tu nel petto:
come
dell’ombra tua, n’ebbi diletto.
XCIX
Sgridai la
viola: dimmi, bella ladra,
a chi
togliesti quella tua fragranza?
fiato
d’amore, tiepida esultanza
che
imporpora la tua guancia leggiadra?
Dell’amor
mio le vene hai derubato;
tocco della
tua mano il giglio ha avuto,
la
maggiorana in boccio, il tuo velluto,
la rosa
timorosa, il tuo incarnato.
Una arrossa
in vergogna, una in paura
s’imbianca,
e tutt’e due t’han preso il fiato.
Vendica il
furto il verme, che spietato
dà loro
morte per rosicatura.
Altri fiori
ho veduto farsi onore
del tuo
profumo, o prenderti il colore.
C
Dove sei,
musa che tanto trascuri
di dire la
materia dove hai forza?
Sprecata
infuri in madrigali oscuri,
luce
possente che svilita smorza?
Torna,
immemore musa, e fa’ redento
con belle
cifre il tempo andato invano;
sciorina a
giusta stima il tuo lamento,
per chi dà tema
e trama alla tua mano.
Sorgi, musa
sopita, e resta all’erta
che il
tempo non deturpi il suo bel viso;
oppure,
fatti satira e da’ berta
al tempo,
che il suo guasto sia deriso.
Celebra
amore che celere muore:
lega la
lama al tempo falciatore.
CI
Musa
infingarda, che scusa ti tarda
dal
mesticare il bello con il vero?
Col vero il
bello amore in sé riguarda,
e a te pure
dà ostello lusinghiero.
Musa,
rispondi – non sofismi, adesso:
“Color di
vero non si finge vero,
forma di
bello non la sbozza un gesso,
e l’ottimo
è perfetto quand’è mero”.
Taci perché
non chiede i tuoi trofei?
Poca causa
al silenzio, se più fama
puoi darle
che i dorati mausolei
e renderla
al futuro che l’acclama.
Fa’ quel
che devi, musa: da me impara
a dir
domani quanto adesso è chiara.
CII
Cresce
l’amore, ma non vuol mostrarlo:
come più
t’amo, più ne fuggo il vezzo.
L’amore
ch’è vantato a caro prezzo
è amor
mercante, e si vuol millantarlo.
Amanti
nuovi della primavera,
noi
celebrammo i fasti dell’inizio;
ma un
flauto d’usignolo nel solstizio
si tace,
quando estate vien più fiera.
La notte è
vaga di una gioia nuova,
smessi
gl’inni solenni delle prime,
ché tanta
melodia dismaga e opprime,
e amore
risaputo poco giova.
Di tempo in
tempo canterò più raro,
che per
protervia non ti sia discaro.
CIII
Misera
cosa, musa, ti palesi
che avendo
tanta riva a farti vanto
ben più
vale svestita la tua tesi
che con la
rima e con il metro accanto!
Tu non far
mutria alla mia poca vena –
dentro lo
specchio ti riguarda un volto
alla cui
stregua è smussa la mia lena,
torpido il
verso, al male che l’ha incolto.
E non è
colpa, pur cercando venia,
guastare un
tema di tanto momento?,
se non ad
altro aspira la mia nenia
che dire la
tua grazia e il tuo portento.
Più, molto
più che nel mio verso sieda
rende lo
specchio, quando tu lo veda.
CIV
Al mio
sguardo amoroso non ti sciupi:
bella
com’eri, che prima ti vidi,
tal quale
so che sei. Tre inverni cupi,
tre volte
spogli degli estivi nidi,
tre
equinozi guastati in tre declini
ho già
contati di tra i mesi erranti,
tre aprili
in fiore al giugno che li strini
da che ti
vidi, tu che ancora incanti.
Bellezza è
come un’asta di gnomone –
muove
furtiva e passa impercepita;
parendo
indenne, la tua carnagione
muta sotto
la mia vista tradita.
Tempo che
timoroso nasci, ascolta:
l’estate di
bellezza ti è già tolta.
CV
Non
chiamare l’amore idolatria,
né darle
taccia d’essermi feticcio,
benché uno
il canto, una la lode sia:
d’una e per
una è il verso che compiccio.
Amore caro
a sera e caro a mane,
costante
nel prodigio del suo molto;
e la rima
costante anche rimane:
canta una
cosa e tutte l’altre ha tolto.
“Bella
sincera e cara” è il tema regio,
“bella
sincera e cara” in ricercare;
tre voci in
una, madrigale egregio
che
l’ingegno si strema di variare.
“Bella
sincera e cara” vanno sole:
ma in tre,
per lei, sono una sola mole.
CVI
Se negli
annali dei bei tempi antichi
leggo il
catalogo dei valorosi –
odi a
bellezze, splendidi emistichi,
lodi di
dame e paggi fascinosi –
nel làbaro
glorioso di bellezza
tra mani e
piedi e labbra e occhi e fronti
le antiche
penne mostrano contezza
di te, che
per valore li sormonti.
Dunque le
vecchie lodi sono auspici,
presagi del
presente, tue visioni
d’orbe
pupille che, divinatrici,
non bastano
a lodarti con canzoni.
Abbiamo
noi, del giorno d’oggi astanti,
occhi
stupiti – non lingue bastanti.
CVII
Né per i
voti miei, né per i vati
del mondo,
sognatori di futuro,
i termini
d’amore sono dati –
che credo
prede d’un fato sicuro.
Luna caduca
è reduce d’eclisse,
Cassandra
dà la baia al suo
dies iræ!
corone
nuove a nuovi dubbi infisse,
rami
d’ulivo da non più sfiorire!
Stille del
tempo, dentro il vostro unguento
risana
amore, e morte paga il dazio,
perché sconfitta
dal mio canto stento,
ai soli
sordi e muti mena strazio.
Alla tua
gloria scrivo questi versi,
se tumuli e
cimeli andranno persi.
CVIII
Dal
pensiero alla penna non abbrivia
figura che
per me non ti sia avvezza;
che di
nuovo si dice, che s’archivia,
in materia
d’amore e di bellezza?
Nulla, mio
bene. E come in salmodia
ti ristucca
cotidie
la mia
predica,
vecchia né
frusta: “sono tuo”, “sei mia”,
tal quale
fu la prima cara dedica.
Amore
annoso con gualdrappa fresca
toglie le
tarme e i guasti dell’antico,
alle debite
rughe leva l’esca
e si
cattiva il tempo, servo amico:
esemplare
d’amore ha bella faccia
dove
apparenza e tempo lo minaccia.
CIX
E non
chiamarmi d’animo bugiardo
se brucio
come per fiamma lontana:
partirmi
dal tuo bene è tanto azzardo
come dal
cuore mio, che al tuo s’intana.
Sei la casa
d’amore che lasciai:
a te
ritorno, come il viaggiatore,
e distolto
al tuo tempo non mutai,
ma attinsi
l’acqua che terge l’errore.
Se dentro
la mia tempra si riversa
ogni vizio
del sangue, tu non credere
che la
natura abbia così perversa
che il tuo
tutto a quel nulla voglia cedere.
E non mi è
niente il mondo. Tu, mia rosa,
nel niente
senza nome sei la cosa.
Fui
vagabondo, e troppo, questo è vero,
e mi feci
arlecchino e fui mercante
negli
affetti e giullare nel pensiero,
vecchio nel
vizio ad ogni nuova amante.
La fedeltà
costrinsi in un mio covo
sinistro e
strano; ma dallo squallore
della
deriva trassi un cuore nuovo,
prova
proterva del tuo buon amore.
Tutto
compiuto, abbi il compimento:
non mi
consumerò per quella smania
di
riprovare amore con cimento:
tu dea
d’amore, prendimi alla pania,
accoglimi,
migliore fra gli eletti,
e chi più
t’ama, più il tuo cuore aspetti.
CXI
Per me
squadri le fiche alla fortuna,
la dea che
rea per come fui molesto
non miglior
equipaggio mi raduna
se non
mediocre, e nei mediocri resto.
Sul mio
nome fa marca un disonore,
e la mia
mano già lorda s’umilia
in quel che
compie, come fa al tintore.
Pietosa,
spera nella mia vigilia
se malato
zelante mi propino
aceto,
forte alla peste tremenda;
nessun
amaro per me amaro opino,
né l’altra
pena che la prima menda.
Abbi pietà,
mia buon’amica, e giuro
che per la
sola tua pietà mi curo.
CXII
Con amore e
pietà risani l’onta
di che mi
piaga l’astio dei volgari;
d’elogio o
maldicenza, che mi monta,
se tu mondi
i miei vizi, i pregi hai cari?
Tu mi sei
mondo. E solo la tua bocca
può
dispensarmi lode o reprimenda.
Non vivo ad
altri; il mio senso s’arrocca
ai vivi che
ne vogliono far menda.
Ho l’altre
voci in così gran ribrezzo
che, come
il serpe biblico, non odo
motti di
plauso e motti di disprezzo;
vedi che
noncurante resto e godo:
tanto nella
mia trama t’ho ritorta,
che la
torma degli altri mi par morta.
CXIII
Quando mi
lasci tu, rimane meco
l’occhio,
che mi governa sempre e ovunque;
e vede in
parte, in parte si fa cieco,
fa viste di
vedere, e cede al dunque.
Né alle
valve del cuore dà visura
d’uccello o
fiore o forma che rinserra
labile sì
che mente la trascura,
né vedendo
s’invesca in quel che afferra.
Che sia
forma più scabra o più gioconda,
l’essenza
più benigna o la più truce,
montagna o
mare, giorno o notte fonda,
colomba o
corvo – tutto in te riduce.
Debole ad
altro, satura al tuo penso,
la mente rende
falso il primo senso.
CXIV
Forse il
pensiero, ebbro di te, sovrano
beve il
sovrano inganno, la lusinga,
o potrà
dirsi amor, che l’occhio spinga
a travisare
il vero nell’arcano:
vedo il
demonio, il lèmure angoscioso
diventar
cherubino al tuo cospetto;
ogni più
vile corpo fa perfetto
l’entelechia
d’amore luminoso.
Lusinga,
credo, rende il vino oppiato
che il
pensier mio sovranamente beve:
l’occhio
asseconda il sire lusingato,
e colma
assiduo quella coppa lieve.
Potrebbe
esser veleno – è poco male,
ché
all’occhio innamorato non ne cale.
CXV
Mentono le
mie rime, quando scrivo
che d’altro
amore non sono capace:
faglio nel
mio giudizio, non capivo
che piena
vampa dà più chiara brace.
Ma vaglio
il tempo, che in millanta guise
s’insinua
tra le leggi e le illusioni,
fa frusto
il bello, e le anime decise
distoglie
al corso d’altre decisioni.
Ahi, che la
signoria del tempo è dura,
e non so
dire “il vero amore è questo”,
sicuro in
quel che meno m’assicura,
re nel
presente, scettico nel resto!
Amore è
bimbo che mi vuole muto:
così cresca
quel che non è cresciuto.
CXVI
Agli
sponsali d’anime gentili
non si dà
briga – o non è vero amore,
se si
travìa per traversìe ostili,
se oppresso
si concede all’oppressore.
L’amore,
no: l’amore è ferma marca,
alta sulle
tempeste né mai scossa,
faro sicuro
ad un vagar di barca,
inestimato
a chi stimare possa.
Tempo non
beffa amore, benché il lieve
fiore di
carne la sua falce mieta;
non muta
amore dentro un lasso breve,
ma alle
soglie del sempre ha la sua meta.
Se di gran
lunga errai d’error provato,
non scrissi
mai – nessuno ha mai amato.
CXVII
Accusami,
che ho molto lesinato –
io che
dovrei coprirti tutta d’oro –
l’amore tuo
sontuoso ho trascurato,
cui ogni
giorno dovrei dar ristoro.
Mi sono
dato a immeritate genti,
ho
sperperato il tempo più prezioso,
ho alzato
la mia vela ad altri venti
che mi han
portato per un mare ozioso.
Giudice,
metti agli atti il mio disegno,
oltre
l’errore: accuse più e men giuste.
Pòrtami
sulla gogna del tuo sdegno,
dànnami, ma
risparmiami le fruste:
ti chiedo
venia, se non fu arroganza
tentare del
tuo amore la costanza.
CXVIII
Come per
appuntire l’appetito
s’induce
col salace la saliva,
o il male
occulto si tiene sopito
gravandosi
con purga preventiva,
così, colmo
d’amore che non stroppia,
faccio
dieta d’assenzio, oppure issopo:
conviene,
per il bene che m’alloppia,
farmi
malato prima che sia d’uopo.
È pratica
d’amore d’avacciare
mali
latenti a sintomi sicuri,
e ’l
valetudinario val menare
a malattia,
ché – sano – se ne curi.
Ma a spese
mie ne cavo la morale:
nuoce il
rimedio, a chi per te sta male.
CXIX
Lacrime
distillate di sirene
bevvi,
dentro un lambicco lercio e pravo,
che ho mene
in fede e fede nelle mene,
e mi rovino
quando già trionfavo?
Per quali
errori il cuore si smarrisce,
rapito alla
sua ora più perfetta!
e come
l’occhio fuor di sé patisce
nella
follia febbrile che l’infetta!
Felice
malattia!, dove ritrovo
il bene che
il mio male fa migliore,
e l’amore
spogliato fatto nuovo
per più
grazia, più corpo, più vigore.
Così
contento della mia batosta,
vinco dal
male più di quel che costa.
CXX
Giova
d’aver patito la tua offesa:
trovar
tormento nel tuo stesso saio
mi tocca,
che la pena ti ho già resa;
non ho
nerbo di rame, né d’acciaio.
Se fui
crudele, se potei ferirti
come
anch’io fui ferito, quale inferno!
e quanto
poco giova inorgoglirti
di quel
dolore, che pareva eterno!
M’insegnino
le ore di tormento
a
scongiurare il male che ti nuoce,
e possa io
trovare un lenimento
che ti
guarisca quel dolore atroce.
Di tanta
crudeltà riscatto sia:
redimo la
tua offesa, e tu – la mia.
CXXI
Meglio
meschino vero che creduto,
se al non
meschino se ne dà nomea,
se il
piacere legittimo è perduto,
vassallo
d’una legge di canea.
Al sudicio
ludibrio dei bugiardi
dovrò
esibire la mia flemma audace?
nei deboli
miei, più deboli sguardi
vedranno il
marcio in quel che più mi piace?
Io sono
quel che sono, e la censura
misura i
propri eccessi con i miei;
troppo
diritto per tanta stortura,
non mi
concedo al metro dei plebei.
O la legge
del peggio piaccia dire:
l’uomo è
meschino, il più meschino è sire.
CXXII
Mi doni
insegne che conservo in mente,
sempiterni
memento
a tutto
tondo
sospesi
sopra il niente impermanente,
longevi più
del tempo e più del mondo;
longevi
almeno quanto cuore e mente
conservano,
finché a natura piaccia,
quel che di
te contenderanno al niente –
e non andrà
perduta la tua traccia.
Memoria
grama! come che t’ingegni,
non giovan
tacche a memorare amori:
ho voluto
disfarmi d’altri segni,
fidare in
quelli dove più dimori.
Un altro
promemoria, qual che sia,
varrebbe
come indulto all’amnesia.
CXXIII
Non avrai
gloria, tempo, che io muti!
Quegli
obelischi che con nuova forza
erigi, mi
son noti e risaputi,
forme
consuete dentro nuova scorza.
Effimeri,
noi siamo sbigottiti
dalla
muffita ciarpa che sciorini:
più giova
creder propri i vecchi miti,
che
memorarli uditi da bambini.
Ti sfido,
tempo, con il tuo corredo,
impassibile
all’oggi come all’ieri;
mentono i
libri e mente quel che vedo,
che
correndo maggiori oppure azzeri.
Questo
prometto, e questo sempre accada:
non mi muti
in essenza la tua spada.
CXXIV
Se amore
fosse figlio di favori,
bastardo di
fortuna e morganatico,
verrebbe
sterpo a sterpi o fiore a fiori,
secondo il
tempo più e men simpatico.
No: la sua
tempra è salda nei marosi,
non patisce
a palazzo, non si scora
nello
scorno dei poveri riottosi
ch’è il
comune costume di quest’ora.
Non soffre
sotterfugi, quel nervoso
avvezzo a
fare calcoli d’un lampo;
è solitario
e molto malizioso:
in fasto
nicchia, in peste trova scampo.
Mentori
suoi, i giullari del passato –
martiri al
bene, dopo aver peccato.
CXXV
Fossi
gargolla che sostiene gli astri,
fossi
archivolto delle mille pompe,
fossi
demiurgo eterno di pilastri,
avrei
tardato il tarlo che corrompe?
Più d’una
volta vidi il facoltoso
giocarsi il
collo per pagar pigione,
guastarsi
il buono per l’artificioso,
ricco e
pitocco, stenta ostentazione.
Solo al tuo
cuore voglio fare omaggio,
offrirgli
un’offa povera ma schietta,
scevra di
ricercari e d’equipaggio,
che l’una
all’altra anima rimetta.
Crepi il
corrotto! che un’anima bianca,
più la
calunni, meglio se ne affranca.
CXXVI
Bella che
rubi al tempo e tieni a bada
lo specchio
sguincio e la lama temuta,
declinando
tu cresci – e chi t’ha avuta,
sorgendo
tu, bisogna che decada.
La natura,
sovrana di naufragi,
ti mena a
capo dopo ogni andatura:
vuol dare
guerra al tempo con bravura,
sconfiggere
i minuti più malvagi.
Diffida tu,
sua gioia favorita:
tarda e non
schiva l’ora del tramonto,
dilata e
non elude il resoconto;
per
quietanza, sarai restituita.
CXXVII
Né si
gradiva more antiquo il nero,
né lo
fregiava fama di gagliardo;
macchia
madre bellezza oggi, il bastardo
nobile per
orpello ereditiero.
Perché a
bellezza ogni mano ritoglie,
schiarendo
il turpe in arte di falsario;
perso il
suo dolce nome e il suo sacrario,
bellezza è
profanata, e mal le incoglie.
Ecco la
donna mia d’occhi corvini
e fronte
tanto buia ch’è luttuosa,
come chi
nato brutto affetta e posa –
calunnia e
plebiscito dei meschini.
Piangono
mesti, pure, quei cipigli –
e chi li
dice belli, li somigli.
CXXVIII
Quando,
musica mia, tu suoni musiche –
legno
beato, se muovendo stilla
sinuoso il
filo degli accordi astrusi
che sotto
il tocco della mano oscilla –
invidio i
tasti che senza ritegno
baciano dal
di dentro le tue dita;
e la mia
bocca timida, a quel legno
cede la
messe così tanto ambita.
Le labbra
danzerebbero, lambite
dalle
chiavi mutevoli e giulive
che le tue
mani corrono compite –
legno
beato, più che labbra vive!
Tu fa’
felici i tasti tanto audaci:
a loro
dita, a me da’ bocca ai baci.
CXXIX
Spirito
sfatto in scialo di vergogna
è la foja
che agisce; e non agita,
è sudicia,
spergiura, malagogna,
barbara,
ingorda, sordida, mentita,
sprezzata
ma goduta senza meno,
prima
esecrata, consumata poi,
ingrata
come pania di veleno,
esca che
tolga il senno a chi l’ingoi,
folle alla caccia
e folle alla catena,
troppo
voler avere, aver voluto,
gioia
probanda e riprovata pena,
previo
piacere e sogno sprovveduto.
Questo sa
il mondo – ma non sa proibire
all’uomo la
delizia d’insanire.
CXXX
Se nei suoi
occhi non risplende un astro
né disegna
corallo la sua bocca,
se il petto
bruno non finge alabastro
e un crine
nero in capo le si sfiocca,
se rose
rosse e bianche e damascate
alle sue
guance non fanno broccato,
se le
migliori essenze profumate
paiono più
inebrianti del suo fiato,
se la sua
voce – pure così amabile –
non è
dolcesolenne come un’arpa,
se non ha
portamento venerabile
perché
trascina il piede nella scarpa,
pure è la
donna mia ben più preziosa
di qual si
voglia bambola leziosa.
CXXXI
Tu
dispotica e bella, tu superba
come chi
troppa grazia fa mutriosa,
sai bene
che il mio cuore in sé ti serba
come la
pietra più rara e preziosa.
Pure, c’è
chi ti vede e nega in fede
che per
amore i tuoi occhi consumino;
non oso
confutargli quel che crede,
ma sempre,
dentro me, lo giuro e rumino.
A riprova
ch’è giusto quanto giuro,
pensandoti
mi struggo in un gemizio:
occhi negli
occhi, il tuo colore oscuro
dichiaro
ch’è il più caro al mio giudizio.
Scura non
sei, salvo che nel contegno:
qui, credo,
la calunnia coglie il segno.
CXXXII
Amo quegli
occhi che sanno, pietosi,
in quanto
sdegno il tuo cuore mi tiene:
prèfiche in
nero, piangono amorosi
e guardano
indulgenti alle mie pene.
Né il
colore celeste del mattino
più si
conviene al far del giorno grigio,
né Venere,
l’araldo vespertino,
tanto al
tramonto cupo dà prestigio,
quanto al
tuo viso gli occhi di dolori.
Lascia che
il cuore a quel pianto si chini,
grazioso
strazio che ti dà colori,
e in nulla
parte la pietà declini.
Nero il
colore della grazia sia:
a chi ne
manca, manchi leggiadria.
CXXXIII
Dannato il
cuore che ’l cuore mi affligge,
che al
cuore amico ancora reca oltraggio!
Non lo
sazia lo strazio che m’infligge,
che mena il
mio più caro al suo servaggio?
Mi guardi
cruda, mi rubi a me stesso,
il secondo
me stesso mi ghermisci;
di lui, di
me, di te mi privi adesso,
d’un
triplice tormento mi sfinisci.
Il cuore,
ostaggio dei tuoi muri impervi,
prende
riscatto dall’altro mio cuore;
come che
servo tuo, io lo conservi:
nelle mie
stanze, non usar rigore!
Ma sarai
dura: perché in quel tuo speco
nolente
sono tuo, con quel che reco.
CXXXIV
Tu possiedi
anche lui – sì, lo confesso.
Mi do in
pegno al tuo nume:
confisca
me, che in quell’altro me stesso
tu mi renda
il mio lume.
No, non l’affranchi,
perché tanto bieca
tu sei,
quant’egli è schietto;
egli firma
per me quest’ipoteca,
e nel mio
laccio è stretto.
Tu avvocata
di grazia, tu usuraia
metti tutto
a tributo;
persegui il
soldo che per me l’inguaia,
e – indegno
– l’ho perduto.
Perduto
lui, hai l’una e l’altra tratta:
lui paga
pegno, sì, né mi riscatta.
CXXXV
Piacer di
donna tu saprai cercarlo
e
stuzzicarlo e vellicarlo un poco,
finché ti
sia molesto, finché il gioco
ti sia
prurito: e tu vorrai placarlo.
Tu sai
dimesticarlo, il tuo piacere:
lascia che
accolga il mio, per una volta.
Potresti
medicarlo?, ché gli han tolta
la tua
amorosa cura altre chimere.
Acqua
infinita, il mare: e san le piene
della marea
magnificarlo ancora;
così il
piacere mio nel tuo dimora,
vuole
gratificarlo del suo bene.
Toccarlo,
chi ti fa queste preghiere,
puoi dedicarlo
tutto al tuo piacere.
CXXXVI
Se il cuore
cieco mi ti tiene al largo,
tu giuragli
“voglio toccarlo, voglio”,
perché alla
voglia il cuore non dà embargo,
e amore non
dà more al caro doglio.
Caricarlo di
voglie, amor forziere,
e rabboccarlo
colmo, me compreso:
dove più
cape più si dà a vedere
che nei
plurimi l’uno zero è reso.
Dunque nei
tuoi bilanci io sia zero,
benché
contabilmente uno sia, pure;
contami
niente, purché sia davvero
quel niente
qualche cosa alle tue cure.
Fa’
dell’amore un nome, per amarlo:
amerai me,
per non dimenticarlo.
CXXXVII
Che fai
negli occhi, folle amore cieco,
che
travedono e negano il veduto?
Sanno
vedere il bello, eppure seco
credere il
meglio al peggio hanno voluto.
Se gli
occhi guasti per troppa indulgenza
posano là
dove ciascuno passa,
tu di quel
falso fai giurisprudenza
che il
giudizio del cuore stringe a nassa.
Perché fare
dimora eletta e mia
quella
terra che so comune a tutti?
pur vedo,
pur rinnego, perché sia
vera luce
ai tuoi tratti turpi e brutti.
Fuorviati
dal vero, occhi e cuore
son
consegnati al male mentitore.
CXXXVIII
Quando mi
giura ch’è tutta sincera
le credo,
benché menta e finga in fondo
ch’io sia
villica merce baccelliera,
ignara dei
cavilli del gran mondo.
Crede,
cred’io, che mi creda un ragazzo,
e sa ch’è
oltre lo zenit la mia età;
dalle sue falsità
cavo sollazzo,
in mutuo
sprezzo della verità.
Perché non
dice quanto falsa sia?
perché non
mi confesso centenario?
L’amore ama
la buona ipocrisia,
e dov’è
annoso, ha in noia il calendario.
Così mento,
e mi rende la bugia:
infiorarci
le pecche è cortesia.
CXXXIX
Non
domandarmi ammenda di quel dolo
che sul mio
cuore slealmente posi.
Parlando
mordi!, né guardando solo:
forza alla
forza, non giochi capziosi.
Di’, ami un
altro – dimmelo a quattr’occhi
cuor mio,
senza stornarmi gli occhi tuoi.
Perché
d’astuzia mi ferisci e stocchi,
se a me
indifeso puoi far quel che vuoi?
Sì, ti
perdono: “L’amor mio sa bene
che i suoi
begli occhi mi furono bui;
perciò dal
mio cospetto li trattiene,
che il loro
dardo scocchi e leda altrui”.
Oppure,
poiché il cuore mi dilegua,
finiscimi
di sguardi e dammi tregua.
CXL
Saggia
quanto crudele, non tentare
la mia
pazienza muta col disdegno:
sofferenza
bisbiglia in voci amare,
dice un
dolore senza più ritegno.
Non senti
amore?, amore metti in scena.
Questo
soltanto ti ammaestro, amore,
sì come al
torvo moribondo mena
chimere di
salute il suo dottore.
Tolta
speranza, resta a me follia:
follia ch’è
fola della tua caduta,
febbre del
mondo, oscena vesanìa:
ché al
folle ogni calunnia vien creduta.
Togli da me
follia, da te menzogna,
guarda
diritta – e dentro, il cuor rampogna.
CXLI
Non con la
vista, in fede, io ti amo,
che rimanda
di te le mille mende;
ma il cuore
ama quel che all’occhio è gramo
e in te,
malgrado lui, tutto si prende.
Né l’udito
si bea della tua gola,
né indulge
il tatto al tocco non permesso,
né al
fescennio dei sensi con te sola
olfatto o
gusto impetrano l’ingresso.
Ma cinque
sensi e cinque intelligenze
non fanno
stare la corvée del cuore
che verso
te, salvate le parvenze
virili,
viene schiavo e servitore.
Unico mio
profitto, la mia piaga:
lei che mi
travia, in pena mi ripaga.
CXLII
Pecco
d’amore, e l’odio ti dà vanto –
odio
dell’amor mio che amando pecca;
ma se il
mio stato al tuo rimetti accanto,
vedi ch’è
iniquo chi me lo rimbecca.
Iniquo,
almeno, il tuo labbro scarlatto
che un
sigillo spergiuro posa, dove
d’amore
infinge, come a me, il contratto
e depreda i
bilanci d’altre alcove.
Con diritto
ti adoro come adori
chi
favorisci quanto hai me in scorno.
Pietà
semina al cuore, che i suoi fiori
meriteranno
compassione, un giorno.
Se prendi
altrui quello che altrui sottrai,
col tuo
esempio ti confuterai.
CXLIII
E come
alacre corre la massaia
le peste in
fuga d’una sua bestiola,
posa il suo
bimbo, briga intorno all’aia
dandosi
treno per quel che s’invola,
e il bimbo
trascurato le dà caccia
piangendo,
invoca il suo bene distolto,
mentre lei,
presa di quel che le avaccia,
alle mene
bambine non dà ascolto:
così
travagli per chi ti divanza
e io
t’invoco, bimbo, da lontano;
ritorna,
contentata la speranza,
fammi da
madre, su: baciami piano.
Prego che tu
ti sazî quei capricci,
pur che per
consolarmi te ne spicci.
CXLIV
Du’ amori
ho, di grazia e di rovello,
mia coppia
ossedente e consigliera:
l’angelo
buono è maschio chiaro e bello,
femmina
l’altro, e di cattiva cera.
La demonia,
per vincermi a suo agio,
va
subornando l’angelo migliore:
il santo
vuole vendere al malvagio,
e con
protervia insidia il suo candore.
Se l’angelo
all’inferno suo guadagni
non posso
stare certo; ma li opino,
emanati da
me, buoni compagni,
l’uno
all’altra geenna cherubino.
Ma
dubitando vado, e vivo incerto,
finché il
malvagio il buono abbia diserto.
CXLV
Bocca fina
d’amore
“Odio”
vuole flautare
a me,
l’adoratore;
però,
quando mi vede vacillare,
pietà le dà
un singulto:
bocca
stolta, che ai molti
dolce dava
l’indulto!
Così saluta
dunque chi l’ascolti:
“Odio”, con
un di più
che notte
faccia chiara
là dove
Belzebù
dalla virtù
celeste si ripara.
“Odio” dice
l’odiosa;
poi mi
salva la vita: “non te”, chiosa.
CXLVI
Rocca di
male terre, anima mia
assediata
da schiere sediziose,
perché
languisci e soffri carestia
cerchiandoti
di mura prestigiose?
Gravare sul
bilancio gramo credi
per vantare
parvenze di splendore?
i vermi si
godranno l’offa, eredi
di tanto
scialo? così il corpo muore?
Campa sui
resti del tuo servitore,
profitta
del suo guasto, tu baratta
l’eternità
con le sue morte ore,
nùtriti
dentro, e fuori il fasto sbratta.
Divora tu
la morte che divora:
morta la
morte, non si muore ancora.
CXLVII
Amore
sembra febbre, che ha più brame
di quel che
più gl’insinua l’insanìa,
più gode di
più lunga malattia
che
all’egro allegra la pur magra fame.
Al
raziocinio, medico d’ambascia
che
offendo, inadempiente alla sua dieta,
mostro –
meschino! – quel che lui mi vieta:
desiderare
uccide; e lui mi lascia.
Incurato
dal senno noncurante,
inquieto
sempre e folle, anzi frenetico,
io penso e
parlo come in un palletico
fuorviando
dal vero ch’è lampante:
chiara ti
chiamo, ti lusingo luce,
che sei
tetro demonio e notte truce.
CXLVIII
Occhio
d’amore ha sguardo surrettizio,
perde
contezza di quel che cattura
o nel
vedere fugge dal giudizio,
miscredente
sensorio che censura.
Se a buon
diritto l’occhio sdilinquisco,
a che pro
questionare sul mio credo?
Ma se
travedo amore, ben capisco
che non è
veritiero quel che vedo.
Non sa
vedere rettamente amore
che in
piangere e scrutare si sfinisce;
traligna al
vero – sì, quale stupore,
se anche il
sole per nubi intorbidisce?
Amore
astuto, in pianto mi fai guercio,
perché non
veda quanto giochi lercio.
CXLIX
Crudele,
che m’accusi di freddezza
mentre
caldeggio il male che mi fai;
l’oblio di
me mi pare una salvezza
quando ti
curo, Erinni, dei tuoi guai.
Chi ti
disama e gode il mio favore?
a chi tu
levi il ciglio e io sorrido?
non vendico
io stesso il tuo livore
con questo
mio patema che ti grido?
Per quali
pregi, quali alti concetti
avrei in
disdegno d’essere il tuo servo,
se del mio
meglio adoro i tuoi difetti,
sguattero
tuo per un guizzar di nervo?
Òdiami,
amore! le cose son chiare:
io cieco, e
cieco è chi ti vede amare.
CL
Per che
malìa trovi la via maliarda
di piegarmi
nel poco che può il cuore,
credere
falso all’occhio quel che guarda,
negare al
giorno il bene d’un chiarore?
Da che
sortisci la mala stortura
che la mera
ripulsa dei tuoi atti
vuol tanto
sforzo e sfoggio di bravura
che col mio
molto il tuo poco s’appatti?
Che tua
maestria l’amore più ridesta
quanti più
segni all’odio parli e sciali?
Benché
idolatri quel che altri detesta,
dovresti
farmi grazia dei tuoi strali.
Se
indegnamente del mio amore godi,
esserti
amante merita più lodi.
CLI
È acerbo
amore per aver coscienza,
benché
coscienza nasca figlia sua;
dunque non
protestarmene l’assenza,
birba
gentile, per coprir la tua.
Da te
venduto, vendo il mio valore
nei baratti
villani della carne;
l’anima
vuol che il corpo sia signore
d’amore –
mentre il corpo non sa starne,
e ritto
verso te, ti vuol bottino
della sua
signoria; folle di vanto,
tutto si
strugge d’esserti facchino,
star sodo
dentro te, languirti accanto.
Non è per
manco di coscienza, credi;
amore è il
bene per cui sorgi e siedi.
CLII
Mi
riconosci amore mentitore,
tu che
amore due volte falso giuri:
violi i
voti di letto, e non ti curi
di
spergiurare odio al nuovo amore.
Ingannato
due volte, a che sgridarti,
io venti
volte tanto più sleale,
che adempio
il solo voto del tuo male,
e non
confido più nelle tue arti?
Vantavo a
pieni voti la tua fede,
l’amore, la
costanza, la lealtà,
ti
rischiarava la mia cecità,
e la vista
abiurava quel che vede:
giurarti
buona vuole un occhio Giuda,
che con
menzogna folle me ne illuda.
CLIII
Cupido
poggia il brando e s’addormenta;
non perde
il destro una figlia di Diana
che la lama
d’amore virulenta
immerge
svelta dentro una fontana.
Acquista
l’acqua dal suo fuoco erotico
una virtù
di vampa duratura,
un nepente
bollente che al falotico
dà garanzia
di prodigiosa cura.
Con nuovo
dardo Amore arde le ciglia
di lei, che
ne fa prova al mio costato;
la smania
di quel balsamo mi piglia,
che corro
là, meschino d’un malato.
Non giova!
il mio rimedio troverei
dov’è anche
il fuoco – negli occhi di lei.
CLIV
Il bimbo
dio d’amore s’addormenta
accanto
alla sua spada portentosa;
uno stuolo
di ninfe gli s’avventa,
votate a
castità; la più graziosa
delle
vestali toglie quella lama
che istilla
amore ai cuori dei mortali:
dorme, il
campione dell’eterna brama,
disarmato
da mani verginali!
La spada,
immersa al fondo d’acqua diaccia,
incandescendo
in quella il suo fervore
un vapore
salubre ne procaccia
ai
sofferenti; io, schiavo d’amore,
qui cerco
cura. E questo ne discende:
l’acqua non
spegne il fuoco che l’accende.
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